Artist


Cielo Vicino di Fabio Mauri

a cura di Giacomo Zaza

Volume!
Roma 13 gennaio 2006




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Serviva un grande spazio per presentare il progetto. Sono più proiezioni che, per la prima volta, non coinvolgono solo oggetti e corpi, ma anche alcune opere di Mauri”, spiega Giacomo Zaza, curatore di questa doppia mostra romana (Cielo vicino e Murato vivo). Vicino ora al neodadaismo, ora all’arte comportamentale, Fabio Mauri (Roma 1926) ha attraversato vari linguaggi artistici; è autore di testi teatrali e saggi sull’arte -come Che cosa è, se è, l’ideologia nell’arte (1984)-, è stato fondatore di riviste, docente di estetica all’Accademia di Belle Arti dell’Aquila e direttore della sede romana della Bompiani.
Il filo conduttore di oltre cinquant’anni di attività è l’enigmaticità dell’esistenza, insieme a temi come la storia, l’ingiustizia, il dolore, la manipolazione dei linguaggi, il dramma della guerra (causa di quel profondo disagio psicologico che per un lungo periodo ha lacerato l’artista), e la follia del razzismo. Temi che si ritrovano in celebri opere e azioni tra cui Ebrea (1971), Che cosa è il fascismo (1971), Heidegger e la questione tedesca. Concerto da tavolo (1989), Il Muro Occidentale o del Pianto (1993).
Già in passato Mauri aveva esplorato il rapporto tra schermo e proiezione, scegliendo alcuni fra i più significativi film della sua cultura -dall’espressionismo tedesco al realismo russo- e proiettandoli su persone e cose o, come nel caso della performance Intellettuale (1975), usando come schermo il torace di Pier Paolo Pasolini per il suo film Il Vangelo secondo Matteo. “Dallo scontro con l’oggettività nasceva un secondo significato, una forma continua di ibridazione ideolinguistica”, afferma l’artista.

Stavolta -in questo doppio itinerario inedito- il lavoro è più che mai autobiografico e incentrato sulla morte e la sua erede, la memoria. “Convincimi della morte degli altri capisco solo la mia”, è scritto su un muro dello spazio di Volume!, trasformato per l’occasione in una sorta di cinema d'antan dove una parte dei sedili di legno -capovolti- pende dal soffitto. “Uno spazio ribaltato della visione e della riflessione”, lo definisce il curatore. Sulla parete più grande scorrono le immagini in bianco e nero di Gertrud (1964), ulteriormente visibili nell’incidenza sul foglio bianco, aperto come un giornale, che tiene in mano un performer -spettatore solitario- seduto di spalle. Il film di Carl Theodor Dreyer parla di matrimonio, amore, passione, infedeltà, divorzio, illusione e disillusione; si odono frasi che non possono non stimolare riflessioni: “ognuno ha il suo fardello di infelicità e dolore”; “nessuno potrà dividerci, nessuno tranne la morte”; “ecco la vera definizione della mia vita, è stata inutile”.
Altri frammenti, sempre in bianco e nero, rievocano i souvenir de voyage degli anni ’20 e ’30 di una famiglia borghese napoletana a cui l’artista è affettivamente legato. In questa piccola nicchia di passato le immagini scorrono briose, abbracciando -prima di sfiorare le pareti- una giovane donna in carne ed ossa (il mimo è Miriam Vender), che indossa un elegante abito nero, illuminato dal rosso della sciarpa rigida (mossa da un vento immaginato), e dal rossetto sulle labbra.


manuela de leonardis
12 dicembre 2005
 

© Toni Garbasso